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INFORMAZIONI DEL GIORNO – NEWS PER GLI ITALIANI ALL'ESTERO

Eugenio Marino “Andarsene sognando. L’emigrazione nella canzone italiana”

RECENSIONI

Cosmo Iannone Editore

 

Un’analisi dell’esperienza umana dell’emigrazione raccontata attraverso i testi delle canzoni italiane nel libro di Eugenio Marino “Andarsene sognando. L’emigrazione nella canzone italiana”, appena pubblicato dall’editore Cosmo Iannone nella collana Quaderni sulle Migrazioni diretti da Norberto Lombardi e presentato in anteprima alla Fiera nazionale della piccola e media editoria “Più libri, più liberi” nella prima metà del mese di dicembre, a Roma. Esperienza umana ripercorsa attraverso lo sguardo della musica popolare e impegnata, che ci propone gli stati d’animo e le esperienze dolorose che contraddistinguono questo viaggio, segno incancellabile perché costante – anche se spesso di fatto sottaciuto e dimenticato – della nostra memoria nazionale, ma allo stesso tempo vissuto che può aiutarci a comprendere, oltre alla nostra identità, cosa può essere l’incontro con l’altro, lo straniero, il diverso.

Scopriamo così che la musica colma una significativa lacuna del nostro Paese: l’assenza di un’attenzione costante e compiuta alle vicende dell’emigrazione italiana da parte della “storia ufficiale” – e dove troviamo uno studio del fenomeno si tratta per lo più di analisi specifiche, condotte attraverso un’ottica settoriale e non multidisciplinare – e l’incapacità di coglierne più prontamente trasformazioni e caratteristiche, rese invece dalle canzoni in modo più immediato e genuino.

Interessante inoltre la disamina che emerge del registro di volta in volta adottato da questi canti sul tema, spesso condizionato dall’atteggiamento di politica e istituzioni nazionali: emerge così nella musica popolare – la tradizione napoletana in primis – la vena melodrammatica, con la malinconia delle partenze e la nostalgia per la terra di origine, ma anche la fatica del lavoro e del sacrificio, ripresa nei canti anarchici, di lotta e di protesta, in cui viene messo in luce invece lo sfondo sociale del fenomeno, ribadito dal cantautorato italiano dagli anni Sessanta fino ai giorni nostri. Se l’emigrazione italiana, flusso continuo qui ripercorso dall’Unità d’Italia in poi, è stata a più riprese minimizzata, nascosta o mistificata – come nelle canzoni intrise di retorica fascista, in cui si cerca di soppiantare il concetto di emigrazione per necessità con quello dello “spostamento per convinzione”, affiancato alla logica di colonizzazione propria dell’impero, – sono le canzoni a riportarci più direttamente all’esperienza autentica, intima o collettiva, di questo viaggio. Esperienza autentica perché fatta soprattutto di emozioni, suscitate da grandi speranze, sofferenze o sconfitte, che si fanno via via più amare quando l’emigrazione non viene più proposta quale fatalità e scelta “obbligata” dal destino. L’obbligo viene infatti presto ricondotto dalla “denuncia del popolo vinto” – così Pino Aprile definisce suggestivamente in un suo contributo al testo la canzone d’emigrazione – all’incapacità di politica e istituzioni di creare in patria condizioni di sviluppo adeguate, specie nel Mezzogiorno. Nonostante l’emigrazione abbia certamente consentito a milioni di italiani di realizzarsi e trovare un proprio spazio nel mondo, non sono i loro successi ad animare le canzoni, che se non sono espressione intima di nostalgia o rimpianto di patria e affetti, sono ispirate a tragedie come l’affondamento dei bastimenti – la nave Sirio, per esempio, carica di emigranti e affondata nel 1906 nel suo viaggio alla volta dell’America – oppure a vicende di intollerabile ingiustizia come i linciaggi a danno degli immigrati italiani avvenuti a cavallo tra Otto e Novecento negli Stati Uniti o la condanna a morte di Sacco e Vanzetti (arriviamo però ad episodio molto più recente, l’uccisione in Svizzera nel 1971 di Alfredo Zardini, emigrato da Cortina d’Ampezzo e pestato a morte in un bar, solo perché considerato con disprezzo – come dice la ballata a lui dedicata – randagio in cerca di pane).

Solo con il genio musicale di Renato Carosone – e tra le canzoni qui richiamate segnaliamo in particolare Io tengo n’appartamento, che cita la Mulberry street divenuta il cuore della Little Italy newyorkese – traspare un nuovo registro, ironico e disincanto, una canzone nuova che è il frutto di una visione ad ampio raggio di vecchia e nuova emigrazione, innovazione capace di innestare sulla tradizione napoletana la ricchezza data dalla multiculturalità e dalla contaminazione tra generi. Un tentativo di tenere insieme tradizione e innovazione – non sempre sapientemente miscelate alla Carosone e più semplicemente giustapposte – è compiuto anche dal cantautorato impegnato degli anni Sessanta e Settanta, anni in cui il flusso migratorio si rivolge prevalentemente all’Europa o dal Sud al Nord Italia, “dai bastimenti all’Europa dei treni del sole”, in contemporanea con l’innescarsi del boom economico. Si tratta di un filone che prosegue con la “Scuola genovese” – e con nomi come quelli di Gino Paoli, Umberto Bindi, Luigi Tenco, Fabrizio De André, Bruno Lauzi, Piero Ciampi e Sergio Endrigo – e poi con cantautori come Lucio Dalla, Francesco De Gregori, i Nomadi – solo per citarne alcuni – e arriva sino ai giorni nostri con il Parto delle Nuvole Pesanti e, infine, il rap di Kento. Canzoni che raccontano dapprima l’altra faccia del miracolo economico, poi mescolano temi universali – come il viaggio, tema-simbolo della beat generation – con una riflessione più aderente alla realtà nostrana, in contrapposizione con la cosiddetta musica “leggera”, che aveva il suo palco più rappresentativo nel Festival di Sanremo – e il tentativo di aprire quel palco alla musica “impegnata” conobbe, con Tenco, il più tragico degli epiloghi. Una funzione, quella della musica del cantautorato italiano negli anni Settanta, che per Eugenio Marino supplisce a quella di una poesia in grado di interpretare il gusto di un pubblico più vasto che si ebbe invece altrove con Prevert, Lee Masters o con la beat generation. E a ben guardare, i testi dei nostri cantautori sono a tutti gli effetti dei brani di poesia, tanto che da tempo Renzo Arbore insiste sul ruolo che la diffusione di questo tipo di musica potrebbe rivestire per la promozione di lingua e cultura italiana in tutto il mondo.

Oltre che a renderci partecipi di un pezzo della nostra storia nazionale, partecipi attraverso il riascolto di melodie e testi che abbiamo amato in modo inconsapevole, senza collegarli alle vicende da cui scaturivano o che raccontavano, il libro, attraverso un’analisi minuziosa di oltre un secolo di canzoni italiane – analisi arricchita dalle diverse declinazioni regionali (un paragrafo è dedicato per esempio alla tradizione molisana) – ci aiuta a cogliere la ricchezza di un’identità – musicale ma non solo – fatta di contaminazioni, di ricerca, di scambi. Un’identità assai lontana da un’inesistente idea di purezza, e da cui dovremmo lasciarci noi stessi “contaminare” per accogliere ciò che di nuovo ci circonda, in un’Italia che accosta oggi alla ripresa di nuovi flussi di emigrazione un numero sempre maggiore di presenze immigrate. (Viviana Pansa- Inform)

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