ROMA – Tra le possibili proposte di legge che mi propongo di presentare in Parlamento, nonostante la precarietà della situazione politica e istituzionale, quella sulla cittadinanza per gli italiani all’estero rappresenta una priorità ormai accertata. Non si tratta di una fuga in avanti rispetto allo stallo in cui giace il quadro istituzionale, ma di un segnale che ogni eletto dovrebbe dare della personale volontà di riprendere al più presto il lavoro sui temi concreti. Gli elettori ci hanno dato il mandato di decidere e di operare e, nei limiti del possibile, intendo onorare gli impegni che ho preso nei loro confronti.
Il tema della cittadinanza è un’esigenza vera e matura, sia sul versante del riconoscimento per i figli di stranieri nati in Italia e inseriti in normali corsi di studio che sul versante dello scioglimento di alcuni nodi riguardanti la condizione degli italiani all’estero.
Del primo aspetto si sta finalmente parlando in termini costruttivi. Bersani l’ha posto tra le priorità di quel governo riformatore che, nonostante tutto, continuiamo ad augurarci. Personalmente, sono del tutto d’accordo con questo orientamento.
Del secondo aspetto, purtroppo, si parla di meno. La mia decisione di presentare, assieme agli altri colleghi del Pd eletti all’estero, una legge organica sull’argomento si lega proprio all’esigenza che quando si arriverà ad affrontare il tema si parli di tutti gli aspetti e non solo di alcuni di essi, per quanto giusti e importanti.
La mia proposta di legge riguarda in sostanza due questioni.
La prima è la rimozione del termine temporale fissato nella legge n. 91 del 1992, poi prorogato fino al 1997, per fare in modo che chi ha perduto la cittadinanza italiana, quando era consentito di averne una sola, per ragioni di lavoro e di integrazione nel Paese di insediamento, la possa riacquistare.
La seconda, non meno giusta e matura, si riferisce alla facoltà della donna che ha perduto la cittadinanza italiana senza sua volontà, ma per il solo fatto di avere sposato uno straniero prima del 1948, di riacquistarla e, anche se non più in vita, trasmetterla ai suoi discendenti. Una sentenza della Cassazione del 2009 ha già fatto chiarezza definitiva sull’argomento, ma perché questo diritto sia riconosciuto anche sul piano amministrativo occorre una modifica normativa.
Vorrei chiarire, infine, due ragioni di fondo che sono alla base di questa iniziativa. Stiamo attraversando un periodo di veloce e non sempre chiara transizione sociale e civile. Il tema della cittadinanza non sfugge a questa evoluzione. Nel momento in cui, prendendo atto del fatto che siamo diventato un Paese di immigrazione oltre che di storica emigrazione, si presta – e giustamente – una maggiore attenzione allo jus soli come base di legittimazione della cittadinanza, è necessario favorire un più attuale equilibrio con lo jus sanguinis, che è il principio che ha tradizionalmente regolato il riconoscimento della cittadinanza per gli italiani all’estero. In secondo luogo, la devastante crisi economica e sociale che stiamo attraversando ci spinge a rivolgere uno sguardo innovativo ai nostri problemi.
Ricostruire un organico rapporto con le forze che l’Italia possiede in diverse parti del mondo, dopo le devastazioni di questi ultimi anni, può essere un fattore aggiuntivo di grande valore per una ripresa che dovrà necessariamente contare sulla disponibilità e sul concorso di tutti.(Marco Fedi*/Inform)
*Deputato Pd eletto nella circoscrizione Africa, Asia, Oceania e Antartide