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Cooperazione e volontariato: intervista al giornalista Davide Di Carlo che nel 2008 andò in Mozambico a soli 22 anni

SOLIDARIETA’

 

ROMA – Il volto solare e sorridente di Silvia Romano, finalmente libera dopo 18 mesi di prigionia, ha aperto in questi giorni il dibattito intorno al mondo della cooperazione e del volontariato internazionale: argomento di cui spesso molto si discute, ma poco si conosce. Per capire meglio in cosa consista la cooperazione ne abbiamo parlato con chi ha vissuto sulla propria pelle l’esperienza unica di aiutare gli altri. E’ oggi un giornalista e scrittore, Davide Di Carlo, ma all’epoca della sua missione in Africa aveva più o meno la stessa età di Silvia Romano. In prima battuta il collega ha voluto condividere i suoi pensieri in un luogo virtuale, ossia i social, usando la tastiera di un computer per diffondere un messaggio positivo e di speranza, che non poteva passare inosservato. Nel 2008, a soli 22 anni, è partito per il Mozambico insieme a una cooperante della Comunità di Sant’Egidio.

Non è una scelta da tutti, quindi ci si chiede cosa spinga un ragazzo di quell’età ad andare in missione umanitaria. “Credo che la cosa più importante sia la curiosità di conoscere nuove culture e il mondo. Mi spiego meglio – si prende una breve pausa iniziale Davide – il nostro pianeta è grande e non basterebbe una vita intera per visitarlo tutto. I tantissimi Paesi che lo compongono sono caratterizzati da una grandissima varietà di curiosità e particolarità. Ogni popolo è diverso dall’altro e il voler provare ad interfacciarsi e interagire con loro, potrebbe essere una buona motivazione per spronarci a conoscere meglio noi stessi e gli altri. Ognuno di noi ha i propri interessi, siamo diversi e il bello della vita è proprio questo”, ci spiega Davide con il rammarico di sottolineare come non tutti abbiano però questa voglia di conoscere gli altri. “Molti amano viaggiare solo per divertimento e non li giudico, ma bisogna capire che ogni volta che si va in un territorio sconosciuto si ha la fortuna e il privilegio di imparare cose nuove che arricchiscono il nostro bagaglio culturale”, aggiunge ricordando tra i suoi viaggi non solo il Mozambico, ma anche la stessa Italia e l’Europa, così come il Qatar, lo Sri Lanka, le Maldive e il Libano: su quest’ultimo in particolare, Davide Di Carlo ha scritto un volume intitolato “Storia e sistema dei media in Libano”, proprio a conferma del suo istinto di viaggiatore-osservatore in cerca di emozioni diverse dal semplice souvenir o selfie.  

Tornando al viaggio in Mozambico, Davide ha definito quello del cooperante o del missionario volontario come un mestiere unico, benché spesso sottopagato. Ecco, nonostante tutto però si va; quindi è come se la nostra concezione, occidentale, di “precariato” diventasse del tutto relativa di fronte alla povertà assoluta che si conosce in questi contesti. “Quando si decide di partire come volontario, quindi non cooperante, esattamente come ho avuto modo di fare io, bisogna tener presente che oltre a non guadagnare quel poco che gli operatori ricevono, si spendono anche dei soldi. Questo, quindi, fa capire che si va, in alcuni casi, oltre l’idea di precariato. E’ una passione”, ammette il collega convinto che tutti abbiano questa voglia di aiutare. “Ogni persona vorrebbe partire, anche a proprie spese, giusto per capire quali sensazioni ed emozioni si provino nel vedere un bambino africano giocare per la prima volta in vita sua con un bianco, oppure nel dare un sacco di riso ad una donna affetta dall’HIV e in cura. In questi ultimi giorni ho pensato molto a Silvia Romano, ma anche a Patrick George Zaki in carcere in Egitto: ho pensato come una vita dedicata interamente al prossimo e ai diritti umani possa essere rovinata in meno di un secondo”, aggiunge Davide il cui pensiero corre anche a Giulio Regeni ritenendo a maggior ragione motivo di gioia il rientro a lieto fine di Silvia Romano.

Davide non ha tuttavia nascosto di essere partito, a suo tempo, con la convinzione che le Ong, di cui altrettanto molto si parla, non fossero dopotutto così utili. Mettendo da parte i pregiudizi è partito ed è tornato come una “persona nuova”. Ci si chiede qual sia stato il momento in cui, stando lì sul posto, abbia percepito questo cambiamento interiore. “Sì, ero partito con la convinzione che le Ong e le organizzazioni umanitarie fossero del tutto inutili e che non facessero nulla di concreto per le popolazioni in difficoltà. Le immagini trasmesse in tv o le foto pubblicate su un dépliant, consegnato davanti al supermercato, non rendono bene l’idea del prezioso lavoro che queste svolgono e delle difficoltà a cui queste popolazioni sono costrette a vivere. Ero sciocco e fortunatamente ho avuto modo di conoscere la cooperante che mi ha permesso di andare con lei. Molto probabilmente la donna vedeva in me qualcosa di positivo, d’altronde non ero completamente chiuso mentalmente. Ero propenso ad imparare e conoscere: ho fatto bene ad accettare. Molte sono state le cose che mi hanno segnato e mi hanno permesso di cambiare”, confessa Davide Di Carlo parlando del centro nutrizionale Matola 2 o dei villaggi del distretto di Mecufi, vicino Pemba. “Ricordo un bambino che era affascinato dal mio cappello, me lo toglieva sempre per metterselo in testa. Era dolce e così decisi di lasciarglielo. Invece in uno di questi villaggi c’era una bambina con una malformazione alle caviglie. Necessitava di cure urgenti per poter camminare. Era isolata ed emarginata dai suoi coetanei. Veniva derisa e mi dava fastidio: ricordo che la presi in braccio e, solo allora, i suoi coetanei smisero di ridere. Rimasero stupiti da quel gesto per noi insignificante ma, evidentemente, per loro grande e potente”, sottolinea Davide avendo visto da vicino la sofferenza di queste persone.

Un pensiero finale torna a Silvia Romano ed ai tanti connazionali che sono ritornati in Italia negli ultimi anni. Chiedendo a Davide cosa racconterebbe a Silvia se avesse modo di incontrarla, la risposta è stata semplice ed emozionante. “Anzitutto sono convinto che Silvia continuerà ad aiutare il prossimo e le popolazioni in difficoltà. Io mi sono limitato ad andare in Mozambico solo una volta, come volontario, e non nascondo che vorrei tornarci. Per prima cosa, se avessi modo di incontrare Silvia, la ringrazierei e proverei ad abbracciarla. Poi, come al mio solito, starei in silenzio e ascolterei io quello che lei ha da raccontare. Da quella donna, ora, si può solo imparare. Mi permetto – conclude Davide – di menzionare altri italiani che, come Silvia, hanno avuto la possibilità di tornare a casa nell’ultimo anno. Parlo dell’imprenditore Sergio Zanotti, rapito in Siria nel 2016; Alessandro Sandrini, liberato a Idlib ed infine Luca Tacchetto, tornato in Italia lo scorso marzo dopo 15 mesi di prigionia. Infine, il mio ultimo pensiero va a Patrick George Zaki (studente egiziano frequentante l’Università di Bologna, ndr) che si trova rinchiuso nel carcere di Tora nel Cairo, durante questa tremenda pandemia. Spero che le istituzioni italiane riescano a riportarlo a Bologna il prima possibile”. (Simone Sperduto/Inform)

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