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Carlo e Andy si mostrano

CINEMA E CULTURA

Un articolo di Carlo Di Stanislao

 

Una lunga anteprima è andata ieri sera su Rai Movie, nel corso di una rassegna sul suo cinema, un cinema rigoroso e che parla di gente comune e minuta, capace però di esprimere i disagi del nostro difficile tempo.

“La sedia della felicità” è l’ultimo film di Carlo Mazzacurati, girato tra diverse zone del Veneto, del Trentino e di Roma, ultima fatica del regista padovano scomparso il 22 gennaio scorso, un film dolce e garbato, che sarà nelle sale da domani.

Presentato  al Torino Film Festival nel 2013 (dove Mazzacurati ha ricevuto il premio alla carriera), ha per  protagonisti Isabella Ragonese, Valerio Mastandrea e Giuseppe Battiston ed è una pellicola delicata ed ironica, piena di freschezza e di melanconia, con una marcata vena surreale, con personaggi e situazioni per raccontare l’inseguimento di un sogno, quello di un tesoro che ti cambia la vita, da parte di tre eterogenei personaggi, con il malloppo di una criminale (Katia Ricciarelli), che la donna stessa confida in punto di morte alla sua massaggiatrice Bruna (Isabella Ragonese) e, solo accidentalmente, a Weiner (Giuseppe Battiston) che le è venuto a dare l’estrema unzione.

Alla ricerca di questa sedia africana molto chic con tanto di elefante intarsiato ci si metterà pure Dino, tatuatore romano (Valerio Mastandrea). Cosa unisce i tre in questa ricerca del tesoro? Più che l’ingordigia, il bisogno. Il prete è infatti un giocatore d’azzardo compulsivo, mentre Bruna e Dino hanno due attività sull’orlo del fallimento.

Come dicevamo, a meno di tre mesi dalla scomparsa di Mazzacurati e in occasione dell’uscita di questo film, Rai Movie, dal 10 al 26 aprile,  sta dedicando al regista un omaggio e giovedì scorso (con replica venerdì e sabato),  Cinemag ha inaugurato la commemorazione con un magnifico servizio speciale.

Sulla rete imperversano i video sul film, storia strampalata e divertente che è il volontario testamento  di un uomo che credeva nel cinema e nella sua forma etica oltre che narrativa.

Credeva come lui nella forza estetica e riflessiva dell’arte Andy Warhol, che dopo il grande successo di pubblico ottenuto a Milano, giunge finalmente a Roma, con le sue opere ospitate nelle sale del rinnovato Museo della Fondazione Roma, Palazzo Cipolla, dal 18 aprile al 28 settembre. L’esposizione presenta oltre 150 opere, tele, fotografie, sculture che fanno parte della Brant Foundation e raccontano una storia intensa ed uno scambio culturale unico fra il giovane collezionista e l’artista.

Un incontro dal quale nascerà un sodalizio unico dal quale sfocerà la mitica e rivoluzionaria rivista Interview fondata da Warhol stesso nel 1969 e che Brant acquisterà con la sua casa editrice subito dopo la morte dell’artista,  nel 1987.

Warhol come Mazzacurati ha sostenuto e dimostrato che ogni occasione è buona per esprimere un giudizio attraverso la creatività e che l’arte, davvero, può cambiare in meglio il mondo e le cose.

Nella mostra romana ci sono  alcuni dei pezzi più rappresentativi di Warhol, tra cui una delle quattro Marilyn del 1964, la “Shot Ligth Blue”, ma anche  i primi “Flowers” e “Campbell’s Sup”, “Ladies & Gentlemen”, la serie dedicata alle Drag Queens di New York, “Oxidation Painting” realizzata nel 1978: una tela di circa due metri di lunghezza, dipinta non con i soliti colori fluorescenti, ma con pigmenti di rame e urina. Nella mostra c’è spazio anche per un’insolita sezione interamente dedicata alle famose polaroid: qui si ritrovano proprio tutti i protagonisti di un’epoca, immortalati da vicino e nel pieno del loro successo, dal collezionista e gallerista Leo Castelli a cui Warhol scattò la foto nel 1972, allo stilista Yves Saint-Laurent ritratto nello stesso anno, sempre con la macchina fotografica istantanea. Nel 1975 Warhol non si fece sfuggire un Mick Jagger sbarbato e a torso nudo, a fine anni Settanta incluse nella sua galleria, tra i tanti nomi, Pelè e Liza Minelli.

La scelta del termine pop art, vuole identificare un’arte che parla un linguaggio che tutti conoscono: quello dei mass media, della pubblicità, della televisione e del cinema, ovvero il linguaggio per immagini tipico della società dei consumi, entrando in gara con il linguaggio aggressivo e impersonale dei mass media,  per  sperimentare tecniche inedite,  servendosi di fotografie ritoccate, di collage e assemblages, di sculture in gesso e persino di gesti teatrali per svelare luci e ombre del recente benessere e denunciare lo smarrimento dell’uomo di fronte a una civiltà che impone desideri sempre nuovi e sogni sempre più amplificati.

In questo senso sia Warhol, naturalmente, che Mazzacurati sono esponenti diversi e con diversa sensibilità e stile di questa arte che pone al centro il problema della riproducibilità dell’arte nell’epoca industriale e come e se mantenere il carattere esclusivo dell’opera d’arte, o se invece conciliare la realtà consumistica con il proprio linguaggio.

Ma mentre Warhol trasforma l’opera d’arte da oggetto unico in un prodotto in serie, come nella celebre serie dei barattoli di minestra Campbell, con la quale egli confermò, di fatto, che il linguaggio della pubblicità era ormai diventato arte e che i gusti del pubblico si erano a esso uniformati e standardizzati; la risposta di Mazzacurati va in senso inverso.

Ogni storia è unica, singola ed insieme universale, rappresentazione di una umanità che di disfa di fronte al consumismo e alla tecnologia e che, come una via d’uscita, non ha che il sogno venato di ironia. (Carlo Di Stanislao*/Inform)

* Presidente dell’Istituto Cinematografico dell’Aquila “La lanterna magica”

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