giovedì, 31 Ottobre, 2013 in
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Da “We the Italians”
Innovazione italiana e mercato americano, un matrimonio perfetto
Intervista di Umberto Mucci a Fabrizio Capobianco, giovane imprenditore italiano di grande successo in Silicon Valley
Se l’American Dream equivale da sempre al concetto di “farcela” grazie ai propri meriti, se milioni di Italiani andarono in America per avere prima sopravvivenza e poi successo, se il risultato del lavoro dei nostri connazionali è da sempre ammirato e ricercato negli USA, il connubio tra l’imprenditore italiano e gli Stati Uniti non può non costituire parte importante del nostro viaggio alla scoperta del legame tra i due Paesi.
Tra tante storie di successo di imprenditori italiani che negli USA hanno realizzato il loro business, una di quelle che hanno tanti bei messaggi da raccontare è a nostro avviso quella di Fabrizio Capobianco, che assomma in sé le caratteristiche positive dell’italiano e anche quelle dell’americano: un vero testimonial del mix vincente che queste due nazioni generano quando si uniscono. Persona giovane, semplice e vincente, lungimirante e ottimista, noi lo “inguaiamo” spesso portandolo ad esempio. E lui, che non perde mai il sorriso, ce lo perdona sempre. Lo farà anche stavolta, se lo incarichiamo del pesante fardello di rappresentare le innumerevoli storie di successo imprenditoriale italiano in America, con un focus specifico nell’innovazione della mitica Silicon Valley. La verità è che noi italiani ci guadagniamo non poco, se capiamo il vantaggio di “farci rappresentare” da persone come Fabrizio Capobianco.
Fabrizio, quando hai deciso di andare negli Stati Uniti eri già un imprenditore, nonostante la tua giovane età. Cosa ti ha spinto a lasciare l’Italia per andare in Silicon Valley, e quale fu il primo impatto con l’America?
Io sono sempre stato un amante degli Stati Uniti, fin da bambino, quando leggevo di baseball e li avevo nel cuore: dicevo che volevo fare l’ingegnere e andare a vivere in California, già allora. Venni in Silicon Valley per la prima volta per un mese a 18 anni, a studiare, e mi piacque molto. Nel 1995 avevo appena dato vita a Internet Graffiti, che è stata la prima web company in Italia, e sono venuto qui come invited scientist ai laboratori HP a Palo Alto. Mi ricordo che mi sono venuti a prendere, nel building 4, e i primi due uffici che ho visto erano quelli di Hewlett e di Packard: e ho capito subito che era qui che nascevano e sarebbero nate le aziende che avrebbero fatto la rivoluzione digitale come Google, Facebook, Apple e altre. Quindi sono tornato in America perché volevo fare una grande azienda: con Funambol ci siamo andati vicini, ma spero che la prossima sia destinata a diventare veramente grande grande.
Quando sono arrivato come imprenditore ho lasciato i miei due soci nella cantina di Pavia dove era nata Funambol, un po’ scettici sulla mia decisione di partire, per cercare capitali americani. Ho preso una casa in affitto per alcuni mesi, e appena atterrato un amico mi ha segnalato un’azienda vicino San Diego interessata al nostro prodotto. Ho preso l’aereo e sono andato a trovare il loro Amministratore Delegato, e tornando in aereo ho scritto una proposta commerciale. Il giorno dopo mi ha risposto suggerendo alcune modifiche, che io ho apportato: era un venerdì mattina, e mi ha rimandato il file firmato per accettazione. Io avevo sentito parlare di questa persona due giorni prima, ed era un progetto molto grande per noi. Ho chiamato i miei soci in Italia e dissi loro di aver chiuso il deal, ma ovviamente loro facevano fatica a credermi. Io non avevo ancora nemmeno messo su l’azienda qui, non c’era un indirizzo postale: e quindi nella proposta ho messo l’indirizzo della casa presa in affitto. Il lunedì mattina ho ritirato la posta e c’era una busta con un assegno del 30% all’ordine, come d’accordo: circa centomila dollari. Insomma, ho capito subito perché qui si realizzano i progetti che diventano così enormi: c’è velocità di decisione ed esecuzione. E per una startup il cash è essenziale, è parte insostituibile della capacità di prendere i rischi che portano, a volte, al successo.
Funambol è stata una grande intuizione, ed un successo italiano che ha avuto un bell’aiuto americano. Del resto tu hai mantenuto il tuo rapporto con l’Italia, anche sul piano del business. In che modo, e perché?
Funambol nasce a Pavia, e a parte me gli ingegneri rimangono lì. I capitali americani che abbiamo preso nel corso degli anni assommano a oltre 30 milioni di dollari, e li abbiamo usati per sviluppare interamente in Italia il nostro software, usato ormai da decine e decine di milioni di persone nel mondo. Il quartier generale è in Silicon Valley perché per prendere 30 milioni di dollari in Italia avrei dovuto portare via da solo probabilmente tutto il Venture Capital che c’è in Italia. Noi abbiamo oggi un AD indiano, un Vice Presidente per il marketing che è americano e un Vice Presidente per i prodotti che è iraniano: ma il 90% dei dipendenti è italiano, compreso il Presidente che sono io. A Pavia abbiamo 60 persone, tutti dipendenti a tempo indeterminato, e continuiamo ad assumere perché stiamo crescendo bene.
Qui in Silicon Valley io ho visto indiani, cinesi, thailandesi che sviluppano software: sono arrivato alla conclusione che il software lo facciamo meglio noi italiani, ed è per questo che rimango legato all’Italia anche sul piano del business. E’ lo stesso anche per l’azienda che ho creato dopo Funambol, TOK.tv. Per fare business, fare partnership, trovare i capitali e predisporre le exit strategy per gli investitori, devi stare in Silicon Valley; ma il posto dove c’è la gente più in gamba, che lavora di più e che produce software di altissima qualità è l’Italia … non c’è altro paese al mondo che assomma tutti questi elementi come il nostro.
Ecco, parliamo della tua prossima avventura. Sei ormai quello che gli americani definiscono “imprenditore seriale”: dopo Funambol hai dato vita con entusiasmo ad un altro progetto, TOK.tv. In qualche modo, anche questo nasce dal tuo desiderio di abbreviare le distanze virtuali, nel tuo caso tra Stati Uniti e Italia. Hai già riscontrato soddisfazioni personali e un importante feedback dall’Italia. Ce ne parli?
La mia idea è che la televisione sta cambiando in modo radicale, perché l’80% delle persone la guarda mentre usano un tablet o un cellulare: lo fanno perché sono annoiati o per sapere di più circa cosa stanno vedendo, ed è anche uno strumento straordinario per poter comunicare con altri che altrove stanno guardando lo stesso programma. La tv nasce sociale: si va tutti insieme al bar a vedere la partita o si invitano gli amici sul divano di casa. Io vivo all’estero e quando vedo lo sport in tv mi fa compagnia solo il mio cane, che quando c’è da esultare non lo fa con me, anzi si impaurisce. Avevo bisogno di condividere questa esperienza, perché lo sport visto insieme è più bello. Abbiamo allora iniziato col baseball: è perfetto perché è lungo, una partita dura 3 ore, guardarla da soli è noioso e io conosco molta gente che so che sta guardando la partita, ma non posso certo stare 3 ore al telefono con loro per commentarla. Il nostro prodotto ha una parte per le statistiche e una parte per la voce che permette di accorciare le distanze, e “vedere” la partita con gli amici. Abbiamo avuto un ottimo successo: durante la scorsa stagione la gente parlava di media per 51 minuti tramite TOK.tv, e abbiamo circa 50.000 utenti.
Una delle cose da raccontare è successa quando, durante una partita di baseball particolarmente importante, mi sono reso conto che in quel momento tra i paesi dai quali si collegavano i nostri utenti, che di solito sono quasi tutti americani, dopo gli USA la prima nazione era l’Afghanistan: mi ha entusiasmato sapere che tra le truppe americane di stanza lì c’erano diversi che stavano usando TOK.tv per condividere l’esperienza di vedere la partita con qualcuno a casa in America. L’idea di potere per un po’ riavvicinare le famiglie mi è piaciuta molto: io sono andato via dall’Italia da solo, lasciando lì la mia famiglia –anche se ovviamente sono due situazioni molto diverse.
Un’altra cosa che mi ha fatto felice è che io ho avuto questa intuizione perché volevo vedere le partite di calcio della Juventus, la mia squadra, con mio padre che è in Italia e mio fratello che è in Mozambico. Dopo il SuperBowl proprio la Juventus, tra tutte le squadre possibili, mi ha scritto per propormi di sviluppare l’applicazione per i tifosi juventini. Io all’inizio pensavo fosse uno scherzo di qualche amico, invece era proprio la Juve. Abbiamo effettivamente sviluppato l’applicazione, e la prima partita me la sono vista proprio con mio padre e mio fratello: è una grande emozione condividere una cosa come la fede sportiva con i propri familiari anche se si è lontani migliaia di kilometri e per me non poteva esserci modo migliore per comprendere l’impatto di TOK.tv su chi la usa. Abbiamo passato 100.000 utenti in una settimana, e infatti stiamo correndo per sviluppare la versione per Android perché per ora c’è solo per iPhone e iPad e gli juventini che non usano Apple ce la chiedono a gran voce.
Abbiamo fatto anche un test per la serata degli Oscar, quindi fuori dal contesto sportivo: in quel caso le donne erano il 70% degli utenti.
Tra le cose che fai, ci sono anche alcune collaborazioni con progetti che fanno un grande lavoro di promozione e aiuto per i giovani italiani con idee imprenditoriali creative, come Mind the Bridge. Com’è la scena dell’innovazione italiana, vista dalla Silicon Valley?
Quando ho iniziato a fare lo startupper nel 1994 la parola non esisteva in Italia, ma anche nel 2003 in America la conoscevano in pochi. Dopo il 2004 mi sono messo abbastanza di impegno per promuovere il concetto di startup, essendo nel cuore di questo mondo, e cercare di comunicare anche all’Italia i più importanti principi che regolano questo ambito: l’importanza del fattore del rischio; il concetto che il fallimento non è un’onta o una cosa solo negativa; la promozione dell’uso del capitale come additivo essenziale per il proprio business, perché anche se dai via un pezzo di azienda, la torta diventa più grande e quindi ci guadagni; che vendere l’azienda una volta portata al successo non è affatto una cosa negativa. Sono concetti culturalmente lontani dalla tradizionale mentalità italiana, e per questo difficili da assorbire. Quindi ho creato il Funambol Gymnasium, per aiutare imprenditori italiani che volevano venire in Silicon Valley. La cosa ha avuto un successo cosí ampio, che grazie a Marco Marinucci lo abbiamo fatto confluire nel Mind the Bridge. Sono tante le startup italiane che sono state qui tre mesi e poi sono tornate in Italia riportando la cultura imprenditoriale assorbita qui.
Dalla Silicon Valley io vedo nettamente l’esplosione del mondo dell’innovazione e delle startup in Italia: una crescita fenomenale di questo movimento culturale, che per la prima volta è stata recepita anche dal Governo Italiano che ha citato il concetto di startup in un suo documento ufficiale. Io ogni anno sono tra chi seleziona le startup italiane che partecipano a Mind the Bridge: la loro qualità sale, inesorabilmente anno dopo anno, e ogni tanto – sempre più spesso – ne vedi una che ti fa pensare che davvero potrebbe diventare una grande azienda (in due ho investito i miei soldini, quindi ci credo veramente). Stanno imparando come si presenta un’azienda a un potenziale investitore, come si fa un business plan, come si disegna un percorso che porti al successo. In questo caso la crisi ha persino in parte aiutato, nel senso che tra alcuni di quelli che hanno perso o che non trovano lavoro c’è chi ha pensato di crearselo mettendo in piedi una sua idea, o almeno di provarci: le startup nascono spesso quando le energie e la creatività sono ancora fresche, dopo l’università, che è anche una delle fasce d’età più segnate dalla disoccupazione.
Questo boom non deve far dimenticare il fatto che fare startup vuol dire fare una gran fatica: io sono estremamente ottimista, perché da questo punto di vista ogni anno è meglio del precedente. Quello di cui avrebbe bisogno l’Italia, in questo campo, è una grande storia di successo, una di cui i giornali si innamorino e la portino ad esempio, una di quelle che “scala” sul serio e diventa un successo mondiale: due o tre ragazzi giovani che fanno la nuova Facebook e diventano miliardari, così che altri ragazzi si impegnino duramente e con fiducia per diventare come loro. Qui succede tutti i giorni.
Tu guardi all’Italia con amore, si capisce bene da ciò che dici: hai recentemente partecipato ad un evento presso il Consolato Italiano a San Francisco tenendo una presentazione dal titolo “Why Italy”. E allora te lo chiediamo: Why Italy?
Guarda, c’è chi a volte mi descrive come un cervello in fuga, e questo mi irrita sempre un po’. Non è un’equazione matematica che tutti quelli che espatriano siano “cervelli”, o che tutti i “cervelli” siano destinati in fretta ad emigrare: noi ad esempio a Funambol abbiamo importato “cervelli” più di quanti ne abbiamo esportati, se così si può dire. E poi per come la vedo io, il concetto di fuga è più quello del ciclista che si alza sui pedali e lascia indietro gli inseguitori sui pedali, rispetto a quello di chi scappa dalla casa in fiamme.
Quando parlo dell’Italia e del fatto che non c’è posto migliore al mondo dove fare software, molta gente non capisce: non sono solo parole, le mie. Io con Funambol ci ho scommesso decine di milioni di dollari, su questo concetto, perché ci credo veramente: e ora con TOK.tv lo sto facendo di nuovo, non me ne sono affatto pentito. Abbiamo gente a Ragusa, a Cagliari, a Roma, a Milano e in diversi altri posti che fanno software di altissima qualità, con una mentalità positiva molto diversa da quella che la televisione vuole fra credere sia quella dell’italiano medio. Noi siamo un paese di imprenditori, quello in cui il tasso di aziende per numero di abitante è il più alto d’Europa: gli italiani che vedo io hanno voglia di emergere, di misurarsi, di mostrare che siamo forti.
Eppure in Italia la meritocrazia da qualche parte c’è: nel calcio. Nel calcio gioca chi è più bravo, sta meglio, non chi ha un cognome famoso o è più pagato o è più anziano (anzi). E vale in Serie A come valeva all’oratorio. Gioca chi è più forte e in forma. Per questo dico che in Italia, fuori dallo sport, manca lo spirito di competizione di squadra: un’azienda è come una squadra e dovrebbe pertanto avere le stesse regole meritocratiche che ci sono nello sport, dove vanno avanti i migliori e si giudica in base ai risultati e soprattutto si è tutti nello stesso team e si deve lavorare tutti insieme nella giusta direzione. Nell’high tech le cose vanno così, e sono le startup che assumono, le nuove aziende: quelle vecchie lo fanno sempre di meno. E’ una questione culturale: ad esempio, si sbaglia a considerare l’imprenditore per definizione un ladro che ruba e sfrutta gli altri.
Dal punto di vista normativo, quali sono le prime tre cose che faresti se avessi il potere di introdurre riforme nella legislazione italiana?
Non conosco molto a fondo le normative italiane, onestamente. Per prima cosa, aiuterei a risolvere il problema dei pagamenti, anche se mi sembra che un po’ lo si stia facendo: avere la certezza di essere pagato per il lavoro che si è fatto è essenziale, e in tempi brevi, è fondamentale. Soprattutto per una startup.
La cosa grossa, e difficile, ma necessaria, è la questione della flessibilità nel mercato del lavoro. Il mercato del lavoro attuale, e in particolare quello dell’high tech nel quale opera la stragrande percentuale delle startup, è completamente diverso da quello per il quale sono state disegnate le leggi in vigore oggi in Italia. Gli ingegneri informatici non possono avere il contratto da metalmeccanico! Sono due mondi molto diversi, nei quali ciò che da una parte è nato come una giusta protezione dall’altra diventa un inutile e inadatto peso. Lo dimostra la Silicon Valley: io qui ho un contratto “at-will”, che vuol dire “a piacere”: entrambe le parti hanno zero giorni di preavviso e non c’è trattamento di fine rapporto (né trattenute a questo fine, ovviamente). Capisco che in Italia ci sia chi pensa che sia un incubo: ma i dipendenti delle aziende qui in Silicon Valley, con quei contratti, sono i più felici del mondo. Tutti “at-will”: e si continua ad assumere, e la gara è a chi assume di più, e a stipendi più alti. Magari qui è addirittura un eccesso, il modello americano forse è troppo brusco nel senso opposto, ma il senso è che in settori come l’high tech la protezione diventa un fardello e genera mancanza di crescita. In Italia mi sembra che stiano provando a fare qualcosa in questo senso, ma dovremmo fare di più, anche culturalmente, per allargare la flessibilità. C’è bisogno di una rete di protezione, ma non ingessando le aziende. Soprattutto quelle high-tech.
Questo concetto si lega anche a quello, anch’esso molto importante, che spaventa alcuna investitori stranieri: liquidare un’azienda che non va. Qui le aziende si chiudono in mezza giornata, nel momento in cui si è capito che non hanno la capacità di andare avanti. Chi ha investito vuole andare avanti, al prossimo progetto, non trascinarsi in tentativi e trattative che non tengono conto della realtà delle cose: di solito, su dieci startup sette non ce la fanno. E’ il concetto di rischio, che è contenuto in ogni impresa, ovunque. Se non lo si riconosce, gli investitori non arrivano.
Ai giovani imprenditori italiani che ci leggono, o a coloro che imprenditori ancora non sono ma sentono di avere idee che potrebbero dare vita ad un business, quale consiglio puoi dare, nel caso in cui volessero provare a sviluppare il loro business negli Stati Uniti?
Per prima cosa, avere un’azienda che già esiste, e viene qui per espandersi e a investire, per trovare un nuovo mercato. Ci sono soggetti che qui sanno aiutare molto bene a farlo, tipo M31. E’ qui che bisogna essere se si vuole conquistare questo mercato, e magari trovare qualcuno che ti possa comprare un domani se avrai successo.
Per chi invece fa startup e vuole fare fundraising qui, io sono abbastanza chiaro. Ne ho visti tanti, ma quelli che sono riusciti a farsi finanziare in maniera importante, almeno sopra il milione di dollari, sono molto pochi. Non è facile, qui c’è molta competizione e a volte in Italia si pensa alla Silicon Valley come alla chimera in cui i sogni si avverano facilmente: non è così, ci sono tanti venture capital ma anche tantissime startup. Bisogna indubbiamente avere l’idea giusta e la volontà di stare qui e “diventare americani”. Ovviamente, anche se certe volte con noi italiani non è così scontato, bisogna saper parlare bene l’inglese e questa cosa non va sottovalutata. I ragionamenti dei venture capital non sono basati su sottilissimi, segreti e complicati algoritmi, ma su l’impressione che si fa: i seed iniziali sono tutti investimenti di pancia. Se non parli nemmeno bene la lingua, parti molto svantaggiato.
Per cui – per cominciare – bisogna venire qui per imparare: e questo lo consiglio a tutti, subito. Prendete la valigia, venite qui dove ci sono tra l’altro posti bellissimi, ci sono le summer school di Mind the Bridge, si partecipa ai barcamp, c’è il Gymnasium, si conoscono le dinamiche, si sta insieme ad altri startupper italiani ma anche internazionali … vi assicuro che alla fine di questo periodo avrete potuto capire molto su voi stessi e sulla vostra idea di business, che è cosa molto importante, anche se alla fine si decidesse di rimanere in Italia. Tutto qui si muove ad una velocità superiore.
Poi, se si è convinti, se si sono messi a frutto gli insegnamenti avuti, sarebbe bene raccogliere qualche fondo in Italia – tra Business Angels e altre opportunità per iniziare – e venire qui solo quando si ha “traction”, ovvero arrivare qui quando si è pronti a fare fatturato, si è maturi per accelerare. Devi arrivare qui con un milione di utenti – possibilmente internazionali e non solo italiani – devi già essere un po’ di successo, per poter interessare gli investitori americani. (Umberto Mucci – We the Italians /Inform)