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Nel Rapporto Italiani nel Mondo della Fondazione Migrantes un capitolo del ricercatore Giuseppe Sommario, dedicato allo studio degli stereotipi cinematografici verso gli emigrati italiani

ITALIANI ALL’ESTERO

 

 

ROMA – Il Rapporto Italiani nel Mondo 2019, realizzato dalla Fondazione Migrantes, ha un capitolo dedicato allo studio degli stereotipi e dei pregiudizi sorti, nel corso dei decenni, nei confronti degli emigrati italiani; a rendere il tutto molto particolare è, tuttavia, lo strumento attorno al quale è costruito lo studio: l’occhio della macchina da presa. A raccontare questo legame, tra cinema ed emigrazione italiana, è il ricercatore dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, Giuseppe Sommario, altresì fondatore del Piccolo Festival delle Spartenze. Il cinema, come introduce Sommario nella sua ricerca, è un poderoso strumento di trasmissione di conoscenze storico-sociali e anche di manipolazione delle coscienze: un film ci racconta sempre dell’ideologia e della società del periodo in cui viene prodotto. D’altronde il cinema contribuisce a creare miti e simboli che incidono profondamente nel modo di essere, di pensare e di agire delle persone. L’Italia ha raccontato la storia della sua stessa emigrazione attraverso il neorealismo impegnato di Rosi nel film “I magliari” (1959), che narra la triste realtà del Paese, o ancor prima già per mezzo della più leggera commedia di Fabrizi intitolata “Emigrantes” (1948) che parla di una famiglia emigrata in Argentina. Entra poi in scena anche l’impegno politico, con la pellicola cult di Montaldo dedicata ai due anarchici italiani ingiustamente condannati a morte negli Usa: l’omonimo “Sacco e Vanzetti” (1971). Un decennio dopo, con Verdone, l’emigrazione torna a essere vista in maniera ironica in “Bianco, Rosso e Verdone” (1981). Il cinema italiano tratta dunque il tema dell’emigrazione raccontando vizi, a volte anche virtù, dei nostri connazionali in cerca di fortuna altrove.

E’ tuttavia lo star-system per eccellenza, ossia Hollywood, ad idealizzare uno stereotipo, per lo più negativo, dell’italo-americano che avanza spesso parallelamente alla rincorsa del cosiddetto ‘sogno americano’. Quell’immagine cinematografica degli italiani, incrostata di stereotipi poco edificanti, di cui ci parla Sommario, trova del terreno fertile in una società già abituata a queste schematizzazioni semplicistiche; infatti già dagli inizi del ‘900, con le prime ondate migratorie di massa, gli Usa mostrano un atteggiamento ostile verso gli emigrati italiani: come ricorda la ricercatrice Caterina Ferrini dell’Università per Stranieri di Siena, sempre all’interno del RIM 2019, la più famosa testimonianza della costruzione linguistica dell’emigrante in negativo è la relazione dell’Ispettorato per l’Immigrazione al Congresso Americano nel 1912. Qui gli italiani vengono definiti “di piccola statura e pelle scura, non amanti dell’acqua e soliti indossare indumenti maleodoranti”; si dice che “parlino lingue incomprensibili, forse antichi dialetti” e che siano “residenti in baracche ai margini delle città, spesso con molti figli che faticano a mantenere” nonché “dediti al furto e, se ostacolati, violenti”. Dunque l’identikit stereotipato di persone che facilmente potrebbero delinquere o comunque dedicarsi al malaffare.

 

Tornando al cinema della ricerca di Sommario, l’opera che più di altre ha saputo elevare a capolavoro artistico questo legame tra gangster, mafia e italiani è sicuramente la trilogia “Il Padrino” di Coppola (1972, 1974 e 1990): è la saga di Don Vito Corleone (Marlon Brando) e del figlio Michael Corleone (Al Pacino) ossia la storia di una delle più potenti famiglie mafiose di origini siciliane di New York. Da una parte c’è la terra d’origine – in questo caso la Sicilia – quella degli affetti più genuini legati a una civiltà contadina edificata sulla religione, sulle tradizioni e su un codice d’onore arcaico; dall’altra abbiamo l’America che diviene la terra d’approdo e degli affari. Come ravvisa Sommario c’è da dire che, la ricostruzione della Little Italy presente nella pellicola di Coppola, si ispiri al film “The Italian” (1915) di Ince e Baker; per l’idea dell’italiano tutto baffi, fazzoletto al collo, giocatore di carte e bevitore di vino bisogna invece rifarsi a “The Black Hand” (1906) di Porter: sarebbe proprio quest’ultima pellicola, infatti, a segnare l’esordio assoluto della malavita italiana sui set americani.

Perché proprio il cinema, dunque, per parlare di stereotipi verso gli italiani emigrati? “Perché come tutte le forme di rappresentazione, il cinema si presta a certi cliché che a volte sono sfociati in veri pregiudizi verso i connazionali. Volevo capire quanto fosse stato il cinema a generare o alimentare certi stereotipi oppure quanto, al contrario, il medium si fosse limitato a registrare fenomeni già presenti nella società”, ha spiegato in un’intervista il ricercatore Giuseppe Sommario. “Certamente il cinema ha una gran forza persuasiva ed è portatore dell’ideologia di quello stesso contesto sociale che lo produce . Non dimentichiamo però – ha aggiunto – che se da una parte il cinema può fondare o rafforzare dei miti, al contempo può anche essere strumento di una contro-narrazione: in ogni caso non è un registratore passivo degli eventi e della storia ma ne è uno dei protagonisti, arrivando a condizionare i comportamenti sociali”, ha evidenziato Sommario. (Simone Sperduto/Inform)

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