RASSEGNA STAMPA
Da “La Stampa.it”
Soldini in vista di Capo Horn sogna il record
“Maserati” sulla rotta New York-San Francisco. Il passaggio del mito è previsto già per domani
L’orecchino d’oro brilla sulle onde dei confini del mondo. Giovanni Soldini lo porta sul sinistro, quale segno di appartenenza di una ristretta confraternita di naviganti sopravvissuti, i cap horniers. Quelli che hanno vinto la sfida di Capo Horn, lo scoglio minaccioso che segna la fine del continente americano.
«L’orecchino lo regalavano durante il Boc Challenge a tutti quelli che passavano il Capo, dentro una scatolina d’argento con la data del passaggio. Era il mio primo giro del mondo a tappe, era il 1995. Era la mia prima volta a capo Horn» racconta lo skipper, da bordo di «Maserati», il Vor 70 (uno scafo super-spinto e iper hi-tech lungo 21 metri e mezzo), lanciato nel record di velocità sul percorso New York-San Francisco.
Una corsa da coprire a rotta di collo, giù per l’Atlantico e su per il Pacifico, lungo le Americhe e passando per capo Horn, da Est a Ovest, dunque contro i venti dominanti. «Penso passeremo Horn domani mattina, la situazione meteo è un po’ confusa, ma ci sarà sicuramente vento: 30 nodi, con raffiche sino a 40. E qualche iceberg» dice lo skipper, raggiunto telefonicamente su «Maserati», che ieri sera stava navigando all’altezza delle Falkland, con 6564 miglia già percorse e a 335 da capo Horn. In largo vantaggio sul tempo di riferimento da battere, quello fatto registrare nel 1998 da Yves Parlier con «Acquitaine Innovations» e probabilmente anche sulla tabella di marcia del multiscafo «Gitana 13», che sempre nel 1998 ha segnato il record assoluto su questa rotta.
La chiamavano la rota de la muerte ai tempi dei clipper, i velieri che dalla seconda metà dell’800 salpavano dai porti del New England carichi di emigranti ed avventurieri attirati dall’oro scoperto a San Francisco. Partivano, per doppiarlo, da 50 gradi di latitudine Sud e si spingevano sino al 60° parallelo. Un’impresa estrema, tenendo conto delle condizioni in cui si navigava all’epoca: carte nautiche approssimate; conoscenze idrogeologiche, oceanografiche e meteo limitate; il cielo quasi sempre coperto che impediva le osservazioni astronomiche e gli strumenti atti alla navigazione poco precisi. La longitudine, poi, era un azzardo e i comandanti, per non rischiare di avvicinarsi troppo alle rocce, cercavano di tenersi il più possibile lontani dal promontorio. Chi ci riusciva, andava a mettersi in gioco nel canale di Drake, con la speranza di non incorrere in una furibonda tempesta.
Doppiare Capo Horn poteva diventare un inferno, il supplizio aveva una durata media di 30-45 giorni. Il record negativo spetta al veliero amburghese «Susanna», che nel 1905 ci mette ben 99 giorni, dei quali 80 trascorsi sotto un vento forza 10 e altre 150 ore con raffiche d’uragano; il passaggio più rapido è della fregata tedesca «Priwall», che nel 1938 impiega 5 giorni e 14 ore per avere ragione dell’infausto scoglio. Ecco perché, all’epoca dei velieri, chi vinceva questa sfida ci teneva a farlo sapere. Con l’orecchino d’oro, che gli faceva guadagnare immediato rispetto in tutti i porti.
A doppiare il Capo per primi sono stati il 26 gennaio 1616 un mercante e un capitano di lungo corso olandesi, Jsaac LeMaire e Willem Schouten (col figlio Jacob), ai quali si deve anche il nome, quello del porto da cui erano salpati un anno prima dall’Olanda, Hoorn. Secondo alcuni scritti, però, il primato dell’avvistamento spetterebbe a Francis Drake, che avrebbe sottaciuto la scoperta, risalente al 1578, per tenere celata l’esistenza del passaggio.
La rotta dei clipper resta in auge sino al 1914, l’anno dell’inaugurazione del canale di Panama. Capo Horn va in pensione, ma gli sopravvive il mito, che resta intagliato nel ricordo degli equipaggi delle diecimila navi che secondo lo storico John Lyman lo avrebbero doppiato tra il 1850 e il 1920 e nei legni di quelle 800 che vi sono naufragate, pagando pegno con quasi 10 mila anime. «Il mito di capo Horn come cimitero dei marinai nasce in quegli anni lì» dice lo skipper milanese .
Il primo Horn di Soldini è stato con «Kodak», il 50 piedi con il quale è arrivato secondo al Boc Challenge. «Ero solo e stavo lottando con David Adams, che mi aveva raggiunto proprio al capo grazie ad un alta pressione che mi aveva sbarrato la strada… C’era poco vento, un bel tramonto».
Il secondo passaggio è stato nel 1999, con il 60 piedi Fila, durante la vittoria dell’Around Alone, sempre il giro del mondo in solitaria a tappe. «Ma con me quella volta c’era Isabelle Autissier (che Soldini aveva soccorso e salvato, ndr.). «Avevamo 25, 30 nodi in poppa… eravamo strafelici di essere insieme e di essere usciti bene da una brutta avventura».
Il mito che resiste. «Capo Horn è l’Everest dei mari, rappresenta tutto quello che uno sogna di fare un giorno e poi quando lo fai in realtà acquista una dimensione più vera e più giusta, è un posto magico, ed è di solito la porta di uscita dei mari del Sud. Quindi. quando lo si passa normalmente, di solito si arriva qui dopo quasi un giro del mondo completo». Adesso, quello sperone roccioso si sta avvicinando di nuovo. All’incirca negli stessi giorni di LeMaire e Schouten…
Sarà la terza volta per Soldini. Un Soldini diverso. «L’eta sicuramente è diversa, la prima volta avevo 27 anni… Poi è diversa la situazione, siamo in nove con una barca molto più grande ma soprattutto siamo controvento….». «Nelle acque di Capo Horn si macera il diavolo. A un miglio di distanza dal tragico promontorio», scrive il Conrad cileno, Francisco Coloane. «Il maligno è rimasto ancorato a un paio di tonnellate di catene, che lui trascina facendo gemere i ceppi sul fondo del mare nelle orride notti di tempesta…». Brilla l’orecchino d’oro, sotto il gesto scaramantico di Giovanni. Ai confini del mondo.(Fabio Pozzo-La Stampa.it, 21 gennaio 2013)
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