lunedì, 11 Novembre, 2013 in
NOTIZIE INFORM
RASSEGNA STAMPA
Articolo del vice ministro degli Esteri su “La Stampa” del 10.11.2013
Marta Dassù: “Attenti a non tagliare la difesa europea”
Caro direttore,
adesso che abbiamo finito i soldi dobbiamo farci venire delle idee. Non ricordo se la frase – attribuita a Churchill – fosse esattamente così. Ma mi è tornata in mente ieri, discutendo a Torino di difesa europea, idea sempre vagheggiata e mai realizzata. Oggi, l’impulso alla Difesa europea deriva infatti dalla convinzione che ci permetterà di risparmiare («adesso che abbiamo finito i soldi»). La logica è quella dell’economia di scala. Ciò è in parte vero: ragionando in un’ottica europea, eviteremo duplicazioni inutili. Ma è vero senza esagerare. Per riuscire, la difesa europea implica che gli Stati nazionali impegnino risorse sufficienti – economiche e politiche – in un progetto comune.
Perché, mi direte allora, dobbiamo proprio occuparci di difesa europea? In fondo, fra crescita che ristagna e disoccupazione, le priorità sono altre. Il problema non trascurabile è che le minacce esterne continuano ad esistere, anche se stanno cambiando volto. E la sicurezza dei cittadini europei dovrà essere tutelata. Da noi stessi: l’epoca in cui sicurezza, interessi e valori europei venivano garantiti da altri, è parte del passato non del futuro.
Vediamo meglio, allora, il «case for», gli argomenti a favore della difesa europea. Anzitutto, la Difesa europea va concepita, più che come un risparmio istantaneo, come un investimento a lungo termine – ha costi immediati e ritorni dilazionati nel tempo. Nell’insieme costituisce, per Stati nazionali in difficoltà, una razionalizzazione necessaria. E intelligente: la realtà di oggi è che 28 Difese europee lasciano «buchi» in capacità essenziali, come il rifornimento in volo. Il Consiglio Europeo di dicembre è un appuntamento importante in tal senso perché permetterà di invertire questa tendenza.
Il problema più evidente è che i tagli ai bilanci, in ordine sparso, stanno riducendo le capacità di operare. Si aggiunge la frammentazione dell’industria della Difesa, che impedisce di fare massa critica e sfruttare l’ampiezza del mercato unico. Tra il 2001-e il 2010 le spese aggregate sono passate da circa 250 miliardi di euro a circa 195, mentre le maggiori economie emergenti hanno registrato forti aumenti. In particolare, i fondi per la ricerca e sviluppo sono diminuiti in Europa del 14% tra il 2005 e il 2010, a fronte di una spesa americana che è oggi pari a sette volte il totale dei Paesi membri della Ue.
In sostanza, noi europei stiamo perdendo peso in termini relativi in un settore molto dinamico e ovviamente decisivo per la nostra sicurezza, tanto collettiva quanto nazionale – si pensi soltanto alla crescente rilevanza della cybersecurity anche per i privati cittadini e le aziende.
A questo fenomeno complessivo si affianca la riconfigurazione dell’impegno americano in Europa: anche gli Stati Uniti sono sotto pressione dal punto di vista dei bilanci, e in ogni caso stanno spostando il baricentro della propria proiezione globale verso l’Asia Pacifico e l’Oceano Indiano. È inevitabile dunque che la presenza in Europa, incluso l’impegno nell’ambito della Nato, venga ridimensionato: in altre parole, il tradizionale patto transatlantico semplicemente non regge più nelle condizioni di oggi, e non per ragioni cicliche bensì per cause strutturali. Non possiamo più dare per scontato che di fronte a ogni emergenza e crisi acuta Washington colmi le lacune delle capacità militari europee. Ciò significa che gli europei dovranno aumentare le loro capacità di azione autonoma, quantomeno a ridosso dei confini dell’Ue.
Esiste una seconda componente essenziale del «case for»: i confini sudorientali dell’Unione europea sono a diretto contatto con fonti di instabilità e rischio, che possono rapidamente trasformarsi in crisi acute. In un contesto geopoliticamente molto difficile come il Medio Oriente «allargato» (che si estende ormai non solo verso Est fino all’Asia centrale e al Golfo ma anche verso Sud fino a comprendere il Sahel), la politica di sicurezza europea si è rivelata spesso inefficace. L’azione esterna dell’Ue è concepita, sulla carta e nelle intenzioni, come un mix molto ampio di varie forme di influenza internazionale (che dovrebbe includere le politiche di Difesa); ma nei fatti si è articolata soprattutto come soft power. Il problema è che quando il soft power europeo non è sostenuto dal possibile ricorso (o dal concorso, come accade ad esempio per quasi tutte le missioni di gestione delle crisi più impegnative) dell’hard power, la credibilità dell’Ue come attore internazionale svanisce rapidamente. Mentre fioriscono iniziative solitarie, e spesso velleitarie, di singoli Stati membri. E conviene dirci la verità: il potere di attrazione dell’Ue (la forma più rilevante del soft power europeo) è in ogni caso diminuito rispetto agli anni eroici del grande allargamento.
Un terzo elemento a favore dell’investimento nella politica di Difesa europea – e si tratta di un elemento essenziale – sta nel potenziale di sviluppo tecnologico: come ha sottolineato la Comunicazione della Commissione del luglio scorso, esiste una questione di competitività ed efficienza industriale collegata strettamente alle capacità militari. Quello della Difesa è un settore con tecnologie di punta che sono spesso a doppio uso (militare e civile) e perciò ha implicazioni potenzialmente molto più ampie delle produzione di armamenti o infrastrutture militari. Non dimentichiamo che gran parte delle tecnologie che usiamo tutti i giorni – dal Gps a Internet sono nate originariamente come tecnologie militari.
L’Italia è uno dei Paesi fortemente convinti del «case for»: tenteremo di contribuire a fare compiere un passo avanti alla Difesa europea non solo al Consiglio europeo di dicembre ma anche durante il nostro semestre di presidenza, nella seconda metà del 2014. Il terreno più promettente è la creazione di sinergie tra l’acquisizione di capacità tecnologicamente avanzate e il rafforzamento dell’industria – attraverso programmi congiunti per lo sviluppo di alcuni sistemi e capacità. I Paesi decisi a compiere progressi nella collaborazione in materia di sicurezza e difesa potranno sfruttare quanto previsto dall’art. 44 del Trattato di Lisbona, secondo il quale alcuni compiti possono essere affidati ad un gruppo di Paesi membri che agiranno tuttavia a nome della Ue nel suo complesso (ossia con un mandato politicamente forte e impegnativo). Questa combinazione può essere decisiva per il futuro della Difesa europea, che richiederà anche maggiore trasparenza fra le scelte degli Stati membri, la progressiva definizione di una «dottrina comune», l’armonizzazione degli standards, l’integrazione almeno parziale delle capacità e il ricorso effettivo a quelle già esistenti e non ancora utilizzate nelle crisi africane recenti, come i cosiddetti «battlegroups» – le unità europee di risposta rapida che sono già state addestrate e predisposte. Più, e questo interessa in modo’ specifico all’Italia, una strategia di sicurezza marittima e il controllo congiunto delle frontiere esterne dell’Ue.
È comprensibile che anche il settore della Difesa soffra le scelte difficili dovute alle condizioni economi- che e ai bilanci pubblici, ma non andrebbe dimenticato che perdere troppo terreno in un ambiente fortemente ,competitivo può avere costi più elevati nel lungo termine. La sicurezza è come l’aria: ci si accorge della sua importanza vitale solo quando viene a mancare. (Marta Dassù* – La Stampa del 10 novembre 2013)
* Vice ministro degli Affari Esteri